Da gpone
A meno di un miracolo la WCM non sarà al via del mondiale della MotoGP, quest’anno. A dircelo, ieri, è stato l’uomo che più si è battuto per la sopravvivenza del team, dal 1992 ad oggi, Peter Clifford.
“Sulla carta le possibilità di affrontare la stagione ci sarebbero state – ha spiegato l’ex giornalista inglese trasferitosi in Nuova Zelanda – la KTM avrebbe potuto darci i motori, così come la Bimota i telai. Uso il condizionale perché contratti non ne sono stati firmati. Per correre, infatti, ci vuole denaro, cioè sponsor, e nonostante l’impegno collettivo non ne sono usciti fuori. Non mi aspetto aiuti dalla Dorna, che si è già esposta per far correre Stoner, Ellison e Checa, per cui non mi resta che fermarmi. Sono esausto. Non ho più un’idea in testa, io sono qui e se qualche amico avrà una proposta risolutrice sono pronto a ripartire, ma sinceramente ci spero poco”.
Clifford, per sgomberare il campo dai detrattori, le ha provate tutte: nei mesi scorsi ha anche bussato alle porte della BMW, che recentemente ha pubblicato sul suo sito web l’immagine di un prototipo con Luca Cadalora alla guida.
Il risultato è stato quello che potete immaginare: evidentemente il tanto esaltato mondiale della MotoGP non fa gola al colosso BMW che i suoi soldi preferisce spenderli privatamente invece che in un campionato dominato tecnicamente, anche per scelte politiche, dalla Honda.
Dopo un team ricco, quello di Sito Pons, tocca dunque ad un team povero, fermarsi. Ed è un gran brutto segno.
E’ brutto perché, al di là della somma matematica delle presenze sullo schieramento di partenza, che può anche essere sufficiente, è totalmente insufficiente la metodologia grazie alla quale si è arrivati a contare sino a diciannove.
Questo numero – sei Honda, quattro Yamaha, quattro Ducati, due moto ciascuna per Suzuki e Kawasaki, una per KR-Honda – è stato raggiunto infatti artatamente, grazie alla Dorna che ha spinto la Yamaha affinché mantenesse quattro moto sulla griglia. Quanto alla Honda, che avrebbe anche lei ridotto volentieri il numero delle moto, la perdita è stata di una sola unità, compensata dai motori dati in leasing a Kenny Roberts senior.
L’”aiutino” della Dorna, come sempre, non è stato fatto mancare anche al team spagnolo d’Antin, che si è così potuto permettere le Ducati ma che non ha mai investito su di un pilota che sia uno, né ha portato mai uno sponsor degno di questo nome nel motomondiale.
Carmelo Ezpeleta, dunque, si è adoperato per aiutare economicamente le case, mentre non ha mosso un dito per arrestare l’emorragia di piloti, da Biaggi a Barros passando per Rolfo, con la convinzione – errata – che il vero valore del campionato stia nei numeri, e non nei nomi.
Non sfugga, all’analisi, che dal paddock, ormai, sono spariti nomi storici. E l’unico, vero, nuovo arrivo è quello del team LCR di Lucio Cecchinello, che nell’immediato futuro – dopo esser stato “scelto” per salvare il futuro di Casey Stoner - dovrà dimostrare di saper reggere il passo.
Per la cronaca la WCM è nata nel 1992 grazie all’entusiasmo dell’americano Bob MacLean e di Peter Clifford. In quegli anni, infatti, era possibile entrare in possesso di un V-4 Yamaha, che i due misero in un telaio ROC affidando la moto a Peter Goddard.
Negli anni successivi gareggiarono per la scuderia anglo-americana Niall Mackenzie, Andrew Stroud, Neil Hodgson, James Haydon e Chris Taylor. Nel 1997 il colpo di fortuna: una delle squadre Yamaha si ritirò dal mondiale lasciando due posti liberi. La casa di Iwata chiese alla coppia di riempirli. Nacque così il team Red-Bull Yamaha, che schierò in Spagna la coppia Cadalora-Corser. Al Mugello l’italiano salì sul podio, finendo il campionato in sesta posizione.
L’anno successivo il team WCM si trasferì in Austria e Simon Crafar, il pilota di punta, ottenne una storica vittoria a Donington, con le Dunlop, stracciando nientemeno che Mick Doohan. Nel ’99 al fianco di Crafar arrivò Laconi, che corse con la WCM per i successivi due anni, mentre Crafar, che non riuscì ad abituarsi alle nuove gomme Michelin fu sostituito da Garry McCoy. La coppia centrò un primo ed un terzo posto a Valencia. Il 2000 fu un anno ancora migliore: l’australiano, con una azzeccata scelta di gomme – fu il primo ad usare le 16.5 posteriori della casa di Clermont – centrò tre vittorie e tre terzi posti. Nel 2002, dopo un anno interlocutorio con alcuni podi ma senza vittorie, McCoy fu raggiunto dallo sconosciuto pilota americano John Hopkins. Un’altra delle scoperte di Peter Clifford. In quella stagione, a causa di vari incidenti, Garry McCoy fu sostituito da Alex Hoffman e Jean Michel Bayle. Il resto è storia d’oggi, ma meglio sarebbe dire, di ieri. L’accordo con Harris è del 2003.
La WCM, dunque, non è stata sempre il team-relitto degli ultimi anni. Ha vinto dei Gran Premi, ha fatto correre dei campioni ed altri ne ha scoperti. Non ha cercato piloti con la valigia, ha cercato campioni. E’ stato un team, nel vero senso del termine. Non si è seduta sui soldi fatti, li ha sempre reinvestiti. E quando è arrivato il Grande Freddo, non si è presa una pausa come ha fatto Sito Pons, aspettando tempi migliori. Peter Clifford ha speso sino all’ultimo dollaro guadagnato per continuare a correre. Per questo oggi si ferma, non per altro. Giù il cappello.
A meno di un miracolo la WCM non sarà al via del mondiale della MotoGP, quest’anno. A dircelo, ieri, è stato l’uomo che più si è battuto per la sopravvivenza del team, dal 1992 ad oggi, Peter Clifford.
“Sulla carta le possibilità di affrontare la stagione ci sarebbero state – ha spiegato l’ex giornalista inglese trasferitosi in Nuova Zelanda – la KTM avrebbe potuto darci i motori, così come la Bimota i telai. Uso il condizionale perché contratti non ne sono stati firmati. Per correre, infatti, ci vuole denaro, cioè sponsor, e nonostante l’impegno collettivo non ne sono usciti fuori. Non mi aspetto aiuti dalla Dorna, che si è già esposta per far correre Stoner, Ellison e Checa, per cui non mi resta che fermarmi. Sono esausto. Non ho più un’idea in testa, io sono qui e se qualche amico avrà una proposta risolutrice sono pronto a ripartire, ma sinceramente ci spero poco”.
Clifford, per sgomberare il campo dai detrattori, le ha provate tutte: nei mesi scorsi ha anche bussato alle porte della BMW, che recentemente ha pubblicato sul suo sito web l’immagine di un prototipo con Luca Cadalora alla guida.
Il risultato è stato quello che potete immaginare: evidentemente il tanto esaltato mondiale della MotoGP non fa gola al colosso BMW che i suoi soldi preferisce spenderli privatamente invece che in un campionato dominato tecnicamente, anche per scelte politiche, dalla Honda.
Dopo un team ricco, quello di Sito Pons, tocca dunque ad un team povero, fermarsi. Ed è un gran brutto segno.
E’ brutto perché, al di là della somma matematica delle presenze sullo schieramento di partenza, che può anche essere sufficiente, è totalmente insufficiente la metodologia grazie alla quale si è arrivati a contare sino a diciannove.
Questo numero – sei Honda, quattro Yamaha, quattro Ducati, due moto ciascuna per Suzuki e Kawasaki, una per KR-Honda – è stato raggiunto infatti artatamente, grazie alla Dorna che ha spinto la Yamaha affinché mantenesse quattro moto sulla griglia. Quanto alla Honda, che avrebbe anche lei ridotto volentieri il numero delle moto, la perdita è stata di una sola unità, compensata dai motori dati in leasing a Kenny Roberts senior.
L’”aiutino” della Dorna, come sempre, non è stato fatto mancare anche al team spagnolo d’Antin, che si è così potuto permettere le Ducati ma che non ha mai investito su di un pilota che sia uno, né ha portato mai uno sponsor degno di questo nome nel motomondiale.
Carmelo Ezpeleta, dunque, si è adoperato per aiutare economicamente le case, mentre non ha mosso un dito per arrestare l’emorragia di piloti, da Biaggi a Barros passando per Rolfo, con la convinzione – errata – che il vero valore del campionato stia nei numeri, e non nei nomi.
Non sfugga, all’analisi, che dal paddock, ormai, sono spariti nomi storici. E l’unico, vero, nuovo arrivo è quello del team LCR di Lucio Cecchinello, che nell’immediato futuro – dopo esser stato “scelto” per salvare il futuro di Casey Stoner - dovrà dimostrare di saper reggere il passo.
Per la cronaca la WCM è nata nel 1992 grazie all’entusiasmo dell’americano Bob MacLean e di Peter Clifford. In quegli anni, infatti, era possibile entrare in possesso di un V-4 Yamaha, che i due misero in un telaio ROC affidando la moto a Peter Goddard.
Negli anni successivi gareggiarono per la scuderia anglo-americana Niall Mackenzie, Andrew Stroud, Neil Hodgson, James Haydon e Chris Taylor. Nel 1997 il colpo di fortuna: una delle squadre Yamaha si ritirò dal mondiale lasciando due posti liberi. La casa di Iwata chiese alla coppia di riempirli. Nacque così il team Red-Bull Yamaha, che schierò in Spagna la coppia Cadalora-Corser. Al Mugello l’italiano salì sul podio, finendo il campionato in sesta posizione.
L’anno successivo il team WCM si trasferì in Austria e Simon Crafar, il pilota di punta, ottenne una storica vittoria a Donington, con le Dunlop, stracciando nientemeno che Mick Doohan. Nel ’99 al fianco di Crafar arrivò Laconi, che corse con la WCM per i successivi due anni, mentre Crafar, che non riuscì ad abituarsi alle nuove gomme Michelin fu sostituito da Garry McCoy. La coppia centrò un primo ed un terzo posto a Valencia. Il 2000 fu un anno ancora migliore: l’australiano, con una azzeccata scelta di gomme – fu il primo ad usare le 16.5 posteriori della casa di Clermont – centrò tre vittorie e tre terzi posti. Nel 2002, dopo un anno interlocutorio con alcuni podi ma senza vittorie, McCoy fu raggiunto dallo sconosciuto pilota americano John Hopkins. Un’altra delle scoperte di Peter Clifford. In quella stagione, a causa di vari incidenti, Garry McCoy fu sostituito da Alex Hoffman e Jean Michel Bayle. Il resto è storia d’oggi, ma meglio sarebbe dire, di ieri. L’accordo con Harris è del 2003.
La WCM, dunque, non è stata sempre il team-relitto degli ultimi anni. Ha vinto dei Gran Premi, ha fatto correre dei campioni ed altri ne ha scoperti. Non ha cercato piloti con la valigia, ha cercato campioni. E’ stato un team, nel vero senso del termine. Non si è seduta sui soldi fatti, li ha sempre reinvestiti. E quando è arrivato il Grande Freddo, non si è presa una pausa come ha fatto Sito Pons, aspettando tempi migliori. Peter Clifford ha speso sino all’ultimo dollaro guadagnato per continuare a correre. Per questo oggi si ferma, non per altro. Giù il cappello.
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